La cooperazione durante la crisi - LE WBO

   “La struttura alare del calabrone, in relazione al suo peso, non è adatta al volo, ma lui non lo sa e vola lo stesso”

Igor Ivanovic Sikorskij (1930)       

 

La cooperazione ha portato la nascita di numerose nuove aziende, segno di evidente controtendenza rispetto ai trend delle società tradizionali, questo fenomeno ha rappresentato la salvezza per alcuni, ma non per tutti. Molte sono state le società che hanno chiuso durante questi anni, sfiancate da un mercato sempre più competitivo e severo. In questo clima non tutti si sono arresi, anche se in un numero molto ristretto, alcune società tradizionali non hanno voluto dichiarare fallimento e hanno trovato nella cooperazione un’ancora di salvezza.

 

1. Una via alternativa

Con l’avvento della crisi più di 82000 imprese sono fallite negli ultimi anni[1]. Per avere un quadro più completo della situazione si devono aggiungere le procedure concorsuali non fallimentari e le liquidazioni volontarie, ovviamente è facile immaginare l’inevitabile aumento del dato. Durante il 2015 però è accaduto qualcosa, la maggior parte degli indici ha subito un’inversione di marcia. Nel grafico seguente è possibile capire meglio quanto sopra esposto[2]:

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Grafico 01 – Imprese non più operative per modalità[3].

Dati alla mano è possibile capire che la crisi ha abbattuto buona parte delle imprese italiane, ma tra quelle che sopravvivono e quelle che chiudono vi è un piccolo limbo nel mezzo. Infatti una piccola parte di esse ha percorso una via alternativa, una risposta alquanto particolare e innovativa. Gli operai di alcune imprese stroncate dalla crisi hanno deciso di rimettersi in gioco acquistando in blocco l’azienda di cui facevano parte, dandole una seconda possibilità. Attraverso varie procedure i lavoratori diventano piano piano proprietari dell’impresa determinando una totale rivoluzione societaria. Il processo è stato diverso di caso in caso ma ha visto un unico filo rosso che ha portato alla costituzione di nuove imprese caratterizzate dal fatto di essere tutte cooperative. Arriva così anche in Italia il Workers Buy Out (WBO).

 

1.1 IL WBO: COS’È E COME FUNZIONA.     

Il Workers Buy Out, o employee buy è un termine statunitense che consiste in una particolare soluzione finanziaria nello stato di crisi aziendale attraverso il quale i lavoratori acquistano l’azienda nella quale lavorano[4]. Ovviamente tale operazione può avere numerose facce infatti ne esistono di vari tipi:

Ø  Management buy out (MBO): dove un gruppo di manager acquista l’azienda in cui lavorano, assumendo la figura di manager/imprenditori. Solitamente tali operazioni hanno successo in quanto i soggetti promotori conoscono a fondo l’impresa target[5];

Ø  Management buy in: dove un gruppo di manager esterni all’azienda target ne acquisisce le partecipazioni e assumono la figura di manager/imprenditore.

Ø  Leveraged buy out (in senso stretto): dove un gruppo d’investitori professionali acquista la società target con lo scopo di rivenderla dopo averne incrementato il valore ottenendo un surplus. Si possono avere LBO di tipo amichevole o di tipo ostile a seconda del fatto che la società target approvi o meno l’acquisizione. Anche le operazioni di MBO possono assumere l’appellativo di Leveraged management buy out nel caso in cui si tratti di un caso di MBO in cui i manager fanno un ampio ricorso ad una leva finanziaria[6] per perfezionare l’operazione di acquisto.

Ø  Family buy out:  a cui si ricorre soprattutto in occasione del passaggio generazionale in aziende a conduzione familiare. Si tratta di una tecnica che permette al familiare o al ramo familiare interessato all’acquisizione del controllo totalitario dell’azienda di finanziarsi attraverso l’azienda stessa per ottenere i mezzi necessari all’acquisto delle partecipazioni di altri membri della famiglia non interessati a rimanere all’interno dell’azienda[7];

Ø  Workers buy out, dove i soggetti promotori sono i dipendenti dell’azienda stessa i quali procedono all’acquisizione e assumono un ruolo imprenditoriale.

 

Le modalità del ricorso al WBO sono molteplici, la più comune è l’Employee Stock Ownership Plan (ESOP) di origine statunitense, seguita dall'esperienza cooperativa italiana e argentina.

 

“Come detto, è negli Stati Uniti che il WBO ha avuto più frequente applicazione e conosce una regolamentazione più avanzata. In ambito statunitense, inoltre, il WBO è in grado di fare leva sullo strumento dell'Employee Stock Option Plan (ESOP), procedura mediante la quale i soci dell'impresa cedono ai propri dipendenti la proprietà di quote della medesima impresa, che vengono conferite in un apposito trust: ciò permette la compartecipazione dei dipendenti agli utili dell'impresa e, in questo modo, consente di allineare ulteriormente gli interessi dei dipendenti al buon andamento dell'impresa. […]Nella specie la cessione di quote aziendali ai dipendenti è deducibile a fini fiscali fino ad una certa soglia e gli utili derivanti dalle quote detenute dall'ESOP sono esenti da imposta: inoltre, allorquando il trust attraverso il quale si sostanzia l'ESOP ottiene un finanziamento al fine di acquistare ulteriori azioni (come nel caso in cui l'ESOP decida di procedere ad un Employee Buy-Out), le somme utilizzate al fine di restituire il finanziamento saranno deducibili. [8]”.

 

Più nel dettaglio l’ESOP[9] nasce come strumento previdenziale dove una società costituiva un trust, e cioè un'altra entità distinta in cui l’impresa apporta azioni o fondi per l’acquisto di azioni già esistenti. In questo modo si permetteva ai lavoratori di fornire captale alle società e percepire una sorta di utile a fine anno. In tal senso grossa parte del capitale sociale era in mano ai dipendenti ma questi ultimi non potevano esercitare il loro potere perché non direttamente proprietari di azioni della società. Questo strumento può essere considerato una sorta di antenato della cooperazione che rimane però ancorato ai dettami del vecchio modello delle società di capitali. Allo stesso tempo però s’intuiva già che rendere i lavoratori direttamente responsabili dell’andamento aziendale provocava una spinta positiva al lavoro svolto[10]. Con il passare degli anni tale strumento subisce interessanti variazioni, sia legali che funzionali concedendo la possibilità ai piani di azionariato collettivo di poter essere finanziati anche con capitale di prestito, assumendo il nome di Leveraged ESOP. In questo modo il fondo poteva indebitarsi per acquistare successivamente le azioni della società che aveva promosso il fondo stesso, permettendo ai dipendenti di diventare possessori del capitale piuttosto che semplici beneficiari degli utili. Tale strumento sebbene può sembrare una buona via di uscita per l’impresa rappresenta comunque un forte rischio per i lavoratori che si ritrovano esposti ad un debito più o meno consistente a seconda dei casi.

 

In Italia e in Argentina il fenomeno WBO ha percorso una strada meno “finanziaria” e più “societaria”.  I lavoratori dell’azienda target che intendono rilevarla costituiscono una società cooperativa (Nuova cooperativa), di cui sottoscrivono le partecipazioni in qualità di soci ordinari (o soci cooperatori). Accanto ai lavoratori possono partecipare all'operazione anche degli investitori istituzionali, quali ad esempio CFI o Coopfond spa per citare i principali, che a loro volta sottoscrivono alcune quote della Nuova cooperativa con l’impegno a disinvestire nell'arco di sette anni ovvero non appena la nuova cooperativa sia in grado di camminare sulle proprie gambe.

 

 

 

Grafico 02: schema di un WBO in Italia.

“Cfi è una società cooperativa per azioni partecipata dal ministero dello Sviluppo economico che ha come soci Coopfond, Fondosviluppo, Generalfond, Invitalia e oltre 270 cooperative. La sua missione è di salvaguardare e incrementare l’occupazione nelle cooperative. Insieme proprio a Coopfond (44 progetti, investimenti fra capitale sociale ed erogazioni per circa 13 milioni di euro fra il 2008 e il 2014) è la leva più forte su cui si fondano i workers buyout. Solo l’anno passato l’ente ha sostenuto 24 interventi e ne ha in previsione altri 50 nel prossimo biennio. «Delle circa 80 partecipazioni - che riguardano oltre 2500 addetti - che abbiamo attive in questo momento oltre l’80% sono costruite intorno al meccanismo dei workers», spiega De Berardinis (vicepresidente e amministratore delegato di Cfi), «e in futuro la porzione è destinata a crescere ancora». «Sono due le strade che possiamo percorrere», aggiunge, «la prima è quella della partecipazione al capitale d’impresa che però in nessun caso può varcare la soglia del 49,9% e durare più di dieci anni; la seconda è quella della concessione di finanziamenti con tassi variabili o fissi che variano fra il 3,2 e il 4,5%». Dalla sua creazione a oggi Cfi ha contribuito a creare o salvare il posto di 12.800 lavoratori, oltre 10000 grazie a programmi di Wbo quasi sempre in partnership con altri soggetti. «In questi casi», prosegue De Berardinis, «quando entriamo nel capitale esprimiamo un rappresentante fra i sindaci dell’azienda più che partecipare attivamente alla gestione finanziaria». Da questo punto di vista infatti il supporto arriva direttamente dalle centrali cooperative. Un lavoro generalmente ben fatto, almeno a giudicare dai dati. Passa la fase preistruttoria il 65/70% delle domande presentate a Cfi e viene approvato il 95% di quelle che poi vanno in consiglio. Mentre il tasso di mortalità delle aziende partecipate è del 13%. Anche se, secondo uno studio dell’università di Padova, la percentuale delle nuove aziende nate da una ristrutturazione gestita dai lavoratori è del 22%. Comunque decisamente inferiore al 35% delle start-up. Il sistema di supporto che un’azienda è in grado di calamitare intorno a sé è decisivo. Oltre ai fondi cooperativi quindi è spesso vitale il coinvolgimento degli istituti di credito. Come abbiamo visto sul fronte Wbo ci sono Unipol e Banca Etica[11]”.

 

Oltre a questi enti possono partecipare al capitale sociale della cooperativa anche i soci sovventori, il cui scopo è quello di sostenere finanziariamente l’iniziativa dei dipendenti. La Nuova cooperativa inoltre può sottoscrivere uno o più finanziamenti con il sistema creditizio al fine di ottenere le risorse necessarie per l’affitto o per l’acquisto della società target o di uno o alcuni suoi rami, potendo poi restituire il debito e pagare gli interessi dovuti grazie alla nuova capacità acquisita con il risanamento della società target. Tale operazione rappresenta una sorta di conversione delle società di persone o di capitali in cooperative. Il nuovo assetto infatti corrisponde proprio alla vocazione cooperativistica già ampiamente discussa. Il socio quindi rappresenta due ruoli: di lavoratore e d’imprenditore. In alcune esperienze prevale il ruolo d’imprenditore, in altre (la maggior parte) il ruolo di lavoratore. Tra gli obiettivi ritroviamo (Ianes, 2011): quello di mantenere l’occupazione, quello di ottenere condizioni salariali migliori, quello di creare un ambiante lavorativo migliore senza prevaricazione padronale, quello di prendere insieme le decisioni in quanto tutti i lavoratori (che hanno sottoscritto una partecipazione della cooperativa) sono co-imprenditori. Le cooperative quindi tendono a operare laddove le imprese for-profit non operano o falliscono, in quanto i fini perseguiti sono diversi rispetto alle imprese lucrative. Le cooperative sfidano tutto, sfidano anche la matematica, perché in cooperativa uno più uno fa tre[12] .

 

1.2 UN PO’ DI STORIA.

L’origine della “WBO moderna” è da ritrovarsi in Argentina, questo paese infatti dal 2001 dopo l’ulteriore grave default che colpi il paese e che costò la vita di molte imprese sacrificando numerosi posti di lavoro cercò di rimboccarsi le maniche e risollevare le proprie sorti. Lo spirito argentino colpito nell'orgoglio non si è lasciato andare e si è rialzato grazie anche alle ERT (empresas recuperadas por sus Trabajadores, che tradotto in italiano sta a significare “ imprese recuperate dai loro lavoratori”), concetto identico al WTO statunitense,  che vede la rinascita delle medesime imprese, sotto forma cooperativa. Il clima non molto civile di quegli anni obbligava gli operai argentini ad occupare le fabbriche nelle quali lavoravano e ad avviare un processo di autogestione al fine di ottenerne l’affidamento da parte del curatore fallimentare. L’occupazione era necessaria per evitare la riacquisizione dei macchinari da parte della precedente proprietà o degli organi del fallimento al fine di procedere alla loro vendita per soddisfare i creditori dell’azienda fallita. Fin dal 1995 esisteva in Argentina una legge, la Ley Nacional de Concursos y Quiebras (Legge 24.522) che prevedeva tale possibilità:

 

“Nella continuità dell’impresa si prenderà in considerazione la richiesta formale dei lavoratori in rapporto di dipendenza che rappresentino i due terzi del personale in attività o dei creditori con rapporti lavorativi, che dovranno operare nel periodo di continuità sotto la figura della cooperativa di lavoro[13]”.

 

Tale legge consentiva alla società un’estrema via di uscita dal fallimento definitivo, la questione comunque non era definitiva in quanto conseguiva un periodo di prova biennale in cui il giudice era incaricato di verificare l’effettivo andamento dell’impresa e la delega finale al passaggio di proprietà[14]. Oggi, a distanza di quasi 15 anni dall'inizio della crisi argentina, molte delle imprese recuperate sono imprese sane e stabili. Ciò dimostra (Barbera, 2014) che la forte coesione sociale tra il gruppo operaio riesce ad assicurare la crescita dell’impresa nel momento in cui si risponde con prodotti di qualità alla domanda del mercato[15].

In Italia invece il fenomeno della WBO è scritto nella storia del nostro paese, già nel 1874 i lavoratori della fabbrica di stoviglie e maioliche di Giuseppe e Angelo Bucci liquidano i vecchi proprietari fondando la Cooperativa Ceramica d’Imola. Seguono poi alcuni casi eclatanti come nel 1952 quando trenta lavoratori della Vetreria IVI di Taddei, a causa del loro licenziamento, decidono di costituire una nuova cooperativa, la IVV, Industria Vetraria Valdarnese, per salvaguardare il loro posto di lavoro. Si trattava di casi isolati e poco seguiti ma già si potevano cogliere le potenzialità di questo fenomeno. Il primo vero e proprio episodio risale al 1982, dopo due anni di occupazione della fabbrica, ad opera dei lavoratori della F.lli Scalvenzi di Pontevico, ora denominata Nuova Scalvenzi società cooperativa, a seguito della crisi aziendale che colpì la società e che culminò con la messa in liquidazione dell’azienda e con la scomparsa, di uno dei tre soci. Seguirono altri episodi simili, soprattutto nella seconda metà degli anni ottanta e nella prima metà degli anni novanta, grazie anche all'emanazione della Legge Marcora, dove si verificarono successi e fallimenti. Questi ultimi sono dipesi secondo Ianes (2011) da diversi fattori quali inesperienza, approssimazione e il continuare della crisi che aveva investito la società oggetto di buy out. Nella maggior parte dei casi, la capacità di rimanere sul mercato è dipesa dal settore in cui la cooperativa era attiva: hanno quindi avuto più successo quelle che operavano nel terziario rispetto a quelle industriali. Tale evidenza è dovuta essenzialmente alla diversa necessità di capitale dei due settori. Il settore industriale infatti richiede investimenti elevati che spesso sono sostenibili con difficoltà visti i limitati mezzi finanziari a disposizione; al contrario nel settore terziario i debiti finanziari erano di ridotte dimensioni e più facili da gestire.

Con la crisi finanziaria del 2008, il fenomeno si è sviluppato in Italia e negli Stati Uniti, per non parlare di Francia, Inghilterra e Germania. In un’intervista al Corriere della sera[16], Aldo Soldi, direttore generale di Coopfond, spiega che, pur non essendo la soluzione alla crisi attuale, il workers buy out è comunque una delle possibili risposte alle molteplici difficoltà che il nostro paese sta attraversando.

 

1.3 ITER BUROCRATICO DELLA WBO

Negli ultimi anni alla tradizionale vocazione liquidatoria del fallimento si è affiancata una nuova visione del legislatore, che tende a salvaguardare il complesso produttivo dell’impresa in crisi, permettendo, in questo modo, all'imprenditore di risanarla o di cederla sul mercato. Tale possibilità può consentire di ricavare un risultato più soddisfacente rispetto alla liquidazione dei singoli beni che compongono l’attivo patrimoniale, sia dal punto di vista dei creditori che hanno maggiori possibilità di ottenere la somma loro spettante, sia dal punto di vista dei lavoratori che potrebbero mantenere la loro, spesso unica, fonte di reddito.

Per quanto riguarda la procedura fallimentare, la legge 267 del 1942, agli articoli 104 e 104-bis, prevede la possibilità di esercizio provvisorio dell’impresa e di affitto dell’azienda. Si tratta di opportunità che il curatore deve considerare al fine della stesura del programma di liquidazione (art. 104-ter l.f.), al fine di ottenere la miglior realizzazione dell’attivo ed evitare quindi liquidazioni irrazionali dello stesso. Tenendo presente che lo scopo della procedura in esame è pur sempre la realizzazione dell’attivo, va evidenziato come la miglior realizzazione spesso non si ottenga attraverso lo smembramento del patrimonio aziendale, ma cercando di estrarre, monetizzandolo, il residuo valore economico che l’impresa, magari alleggerita dei rami aziendali non più proficui, è ancora in grado di produrre. L’esercizio provvisorio dell’impresa sottoposta a fallimento da parte del curatore può essere disposto sia dal tribunale con la sentenza dichiarativa di fallimento nel caso in cui lo stesso ritenga che dall'interruzione possa derivare un grave danno, oppure successivamente, dal curatore cui spetta il compito di valutare l’opportunità della prosecuzione.

L’altra possibilità prevista dall’art. 104-bis della Legge Fallimentare riguarda l’affitto d’azienda o di suoi rami. Molti dei workers buy out hanno avuto avvio attraverso tale strumento. In questo caso, dopo l’apertura del fallimento, si stipula il contratto di affitto in base al quale l’azienda sarà gestita da soggetti diversi rispetto alla precedente proprietà o agli organi fallimentari. Al termine del contratto sono possibili due strade: la retrocessione dell’azienda affittata (o del ramo affittato), oppure la cessione definitiva dell’azienda allo stesso affittuario nel caso in cui nel contratto di affitto sia stabilito il suo diritto di prelazione. Tale diritto viene concesso previo parere favorevole del comitato dei creditori e su autorizzazione del giudice delegato e ha lo scopo di incentivare il potenziale interessato all'acquisto a stipulare, nell'attesa che si svolgano le procedure necessarie, un contratto di affitto. Si tratta, quando possibile, della soluzione preferibile in quanto permette di realizzare un maggior valore sia per la procedure che per i soggetti che realizzano il buy out. Inoltre, in deroga a quanto normalmente previsto per il trasferimento di azienda, il curatore, l’acquirente e i rappresentanti sindacali possono anche accordarsi per un trasferimento solo parziale dei lavoratori e, eventualmente, per modificare i rapporti di lavoro che proseguono. Si tratta di una previsione molto importante anche per i buy out realizzati dai lavoratori stessi, in cui è quasi sempre necessario realizzare un ridimensionamento aziendale[17]. A vantaggio della WBO la Legge fallimentare ha subito una recente modifica, ad opera di una norma inserita nel cd. Destinazione Italia (D.L. n. 145 del 23 dicembre 2013 convertito dalla Legge 9/2014), per quanto riguarda le imprese soggette alle procedure concorsuali in essa disciplinate. Il decreto in esame, prevede infatti:

 

“Nel caso di affitto o di vendita di aziende, rami d'azienda o complessi di beni e contratti di imprese sottoposte a fallimento, concordato preventivo o amministrazione straordinaria, hanno diritto di prelazione per l'affitto o per l'acquisto le società cooperative costituite da lavoratori dipendenti dell'impresa sottoposta alla procedura.

L'atto di aggiudicazione dell'affitto o della vendita alle società cooperative di cui al comma 1, costituisce titolo ai fini dell'applicazione dell'articolo 7, comma 5, della legge 23 luglio 1991, n. 223, ai soci lavoratori delle medesime, ferma l'applicazione delle vigenti norme in materia di integrazione del trattamento salariale in favore dei lavoratori che non passano alle dipendenze della società cooperativa[18]

 

Con tale disposizione si introduce il diritto di prelazione in favore delle società cooperative costituite dai lavoratori dipendenti dell’azienda in crisi che si propongono per affittare o acquistare l’azienda o un ramo dell’azienda sottoposta a procedure concorsuali. Tale approccio può essere giustificato dalla messa in atto dell’articolo 46 della Costituzione italiana che recita:

 

“La Repubblica riconosce la funzione sociale della cooperazione a carattere di mutualità e senza fini di speculazione privata. La legge ne promuove e favorisce l'incremento con i mezzi più idonei e ne assicura, con gli opportuni controlli, il carattere e le finalità”.

 

Lo Stato quindi favorisce la costituzione di società cooperative, in quanto riconosce che esse perseguono una funzione di pubblica utilità imperniata attorno al concetto di mutualità e sganciata dal fine lucrativo, prevedendo diverse agevolazioni e incentivi contenuti principalmente, per quanto riguarda il tema dei workers buy out, nella Legge Marcora (L. 49/1985, così come modificata dalla L. 57 del 2001) e nella Legge 59 del 1992[19].

Grazie a queste riforme nel 1986 nasce C.F.I. (Cooperazione Finanza Industriale), oggi Cooperazione Finanza Impresa, promosso dalle maggiori tre Centrali cooperative dell’epoca (Legacoop, Confcooperative e AGCI) e partecipato dal Ministero dello Sviluppo Economico e da 270 cooperative. C.F.I. promuove la nascita, lo sviluppo e il riposizionamento di cooperative attraverso la partecipazione al capitale sociale in qualità di investitore istituzionale e l’erogazione di finanziamenti finalizzati a piani di investimento, con l’obiettivo di creare valore e di salvaguardare e incrementare l’occupazione. Molte delle cooperative recuperate in questi anni oggi sono ancora attive, grazie soprattutto al contesto economico favorevole che ne ha permesso il consolidamento e lo sviluppo. Si registra, grazie agli strumenti previsti dalla legge Marcora un tasso di sopravvivenza di circa il 60 per cento nel 1999[20].

 

“Da ultimo, il legislatore sembra confermare l'importanza di tale tipo di operazioni nell'attuale contesto di crisi, con il d.l. 23 dicembre 2013, n. 145, convertito in legge 21 febbraio 2014, n. 9. L'art. 11 c. 2 ha, infatti, riconosciuto a favore delle cooperative di lavoratori dipendenti di un'impresa sottoposta a procedura concorsuale - fallimento, concordato preventivo, amministrazione straordinaria o liquidazione coatta amministrativa - un diritto di prelazione per l'affitto o l'acquisto dell'azienda, di un ramo d'azienda o di un complesso di beni e rapporti della medesima impresa. L'eventuale aggiudicazione dell'affitto o della vendita acquisisce, quindi, in virtù del successivo c. 3 del medesimo articolo, valore di titolo per richiedere l'anticipazione dell'indennità di mobilità ai sensi della L. n. 223/1991, nonché delle mensilità non ancora percepite dell'Assicurazione sociale per l'impiego introdotta dalla legge 28 giugno 2012, n. 92[21]”.

 

1.4 BILANCIO DEL WBO

Non sempre queste operazioni sono andate a buon fine, infatti come è possibile immaginare spesso il miracolo non avviene. Motivo principale dei fallimenti sta in tre punti:

·         La nuova società parte “zoppa” e non sempre si riesce a recuperare;

·         La capacità di previsione, analisi e operatività rappresentano forse il punto critico principale;

·         Fattori esogeni, in un certo senso ci si deve ritrovare in un ambiente il meno ostile possibile.

Fattori come il nuovo business plan, il nuovo assetto societario e le disponibilità finanziarie sono i tre snodi principali che possono determinare la buona riuscita del piano. Come punti di forza su cui fa leva il WBO sono:

·       Buona capitalizzazione, raggiunta anche grazie al contributo dei lavoratori;

·   Motivazione dei soci lavoratori, alimentata dal nuovo assetto societario che spinge i soggetti a lavorare meglio per un’impresa che ora non è più un ente lontano e astratto ma qualcosa di proprio (aumento ore di lavoro, flessibilità, partecipazione);

·        Il livello di know how, accumulato negli anni dai lavoratori stessi.

 

“Ovviamente, il primo aspetto positivo che balza agli occhi del WBO è costituito dal mantenimento dei livelli occupazionali dell'impresa in oggetto (nonché, indirettamente, dell'indotto ad essa collegato), oltreché, più in generale, dalla conservazione del patrimonio aziendale e del know-how produttivo. La possibilità di coinvolgere nella gestione parte degli attuali lavoratori, e soprattutto, dal momento che l'operazione richiede l'impiego di risorse finanziarie da parte dei vari lavoratori, di quelli più motivati, l'apporto di esperienze da parte di coloro che conoscono a fondo l'impresa e la riduzione dei costi di transazione in sede di negoziazione (i dipendenti, avendo lavorato all'interno della società, hanno generalmente un'idea abbastanza precisa del valore dei suoi vari asset, tangibili e non, e del suo avviamento) possono contribuire al successo, non solo nel breve, ma anche nel lungo termine, dell'operazione. A tal proposito risulta interessante notare come secondo alcuni dati riportati dagli organi di stampa il tasso di cessazione dell'attività (inteso come liquidazione volontaria o, più spesso, di insolvenza) di imprese "salvate" mediante il WBO sarebbe piuttosto contenuto (22%), in ogni caso più basso di quello delle tanto ammirate società start-up (35%)[22]”.

 

1.5 IL WBO COOPERATIVO

 “Un rapporto Euricse dà conto di 122 aziende in difficoltà rilevate dai dipendenti, al netto delle esperienze che hanno chiuso. Le storie dell’Ora Acciaio di Pomezia, che dopo il fallimento è ripartita come cooperativa, della Italcables di Caivano, della friulana Ceramiche Ideal Scala e della copisteria Zanardi di Padova, rinata dopo che il fondatore si era ucciso perché sommerso dai debiti[23]”.

 

In Italia tra il 2007 e il 2014 più di 122 società hanno utilizzato il WBO con esiti positivi, il bilancio è assai interessante e molto buono se si guarda l’attuale situazione economica.

 

“Questa possibilità di rilancio è stata sfruttata sempre più spesso durante questi anni di crisi. E non mancano nuovi esempi anche nelle ultime settimane. Il caso più recente è quello dell’Ora Acciaio, azienda che a Pomezia (Roma) produce mobili per ufficio di alta gamma. Nata con il boom economico degli anni ’60, la società si è rafforzata negli anni conquistandosi un mercato anche nell’Est Europa e in Medio Oriente. Ma a dicembre 2014, è arrivato il fallimento. Eppure, venti dipendenti hanno deciso di rimettersi in gioco e il 20 gennaio scorso la fabbrica è ripartita con la nuova forma di società cooperativa per azioni […]Solo un mese prima, a dicembre, anche l’Italcables di Caivano (Napoli) è rinata dalle ceneri della crisi grazie all’impegno di 51 ex dipendenti, ora soci fondatori della nuova azienda: si tratta della prima esperienza di workers buyout in ambito siderurgico. Dalla Campania al Friuli, uno dei casi più conosciuti degli ultimi anni è quello di Ideal Standard di Orcenico (Pordenone), che produce arredo da bagno: nel 2014 la casa madre ha deciso di chiudere lo stabilimento, licenziando i 400 dipendenti. Ma a luglio un gruppo di operai ha fondato una nuova cooperativa, la Ceramiche Ideal Scala, che ha rilanciato la produzione: partita con 50 addetti, entro il 2018 si propone di riassorbire 150 lavoratori. Infine, c’è la storia della copisteria Zanardi di Padova, raccontata anche dal New York Times. L’imprenditore Giorgio Zanardi, sommerso dai debiti, si è impiccato in azienda nel febbraio del 2014. Pochi giorni prima la società, che contava 110 dipendenti, aveva chiesto il concordato liquidatorio. Ventiquattro lavoratori non si sono arresi e hanno rifondato una cooperativa sulle ceneri della vecchia copisteria. Nel primo anno di attività, l’azienda ha fatturato 2,5 milioni di euro.[24]

 

Risulta interessante approfondire alcune di queste realtà che contro ogni pronostico sono riuscite a riprendersi. Un caso molto interessante lo si può trovare a Padova nella copisteria Zanardi. Giorgio Zanardi, proprietario dell’omonima copisteria, viene trovato senza vita nella sede della Zanardi editoriale in via Venezuela. Sommersa dai debiti l’azienda sembra avere un destino già scritto:

 

“«Eravamo sommersi da una montagna di debiti», ricorda l’allora amministratore unico Mario Grillo. Fino al 2005 la Zanardi è stata una delle aziende leader nel segmento dell’editoria di pregio (con edizioni limitate anche da 2.500 euro a copia). L’azienda in pochi anni era passata da 300 a 110 dipendenti (la stragrande maggioranza dei quali in cassa integrazione) e proprio pochi giorni prima, il 9 gennaio, aveva presentato richiesta di concordato liquidatorio. Era la fine. «Di fronte alla concorrenza dei libri elettronici e alla flessione del mercato delle guide, in particolare in Francia dove eravamo molto forti, non eravamo stati in grado di reagire», ricorda Grillo. Rimaneva, forse, una carta da giocare: quella della cooperativa di lavoro. Un passo che 24 dipendenti hanno scelto di compiere, investendo le loro mobilità e cassa integrazione, per un totale di 400mila euro. Al capitale sociale della nuova cooperativa hanno poi partecipato con un gettone da 250mila euro l’uno, Coopfond (il fondo mutualistico di Legacoop) e Cfi (Cooperazione finanza impresa) oltre alla finanziaria della Regione Veneto Sviluppo con una quota da 200mila euro. Capitale necessario, dopo il via libera del tribunale, all’affitto dei capannoni e all’acquisto dei macchinari. Grillo è riuscito anche ad accendere piccole linee di finanziamento con Unipol Banca e Banca Etica. Il primo bilancio di appena due mesi fa ha chiuso con un fatturato di 360mila euro (nel 2009 il fatturato ammontava a 15 milioni, scesi a 12 nei quattro anni successivi). «Abbiamo però ritrovato l’equilibrio di gestione e anche uno dei fratelli Zanardi si è riavvicinato a noi: in qualità di consulente ci sta dando una mano per riconquistare il mercato d’Oltralpe», spiega Grillo mostrando, sorridente, un rosso di appena 470 euro «frutto di un ritardo nella contabilizzazione di alcuni rimborsi spese». L’incontro fra Grillo e la Zanardi è recente. «Sono arrivato nel 2013 quando ormai la situazione era precipitata, dopo, fra l’altro un’esperienza di 26 anni in Electrolux». Insomma un manager di lungo corso. «Il meccanismo dei workers buyout può essere molto prezioso anche perché mette fine alla dicotomia fra proprietà e dipendenti rendendo così più forte la capacità di elaborare strategie condivise: tenete conto che i dipendenti oltre all’investimento della mobilità hanno rinunciato a tutti gli scatti di anzianità e oggi prendono solo lo stipendio base con riduzioni a seconda dei ruoli che oscillano fra il 10 e il 15%», conclude[25]”.

 

Ecco emergere chiaro dall'articolo di Arduini come il conflitto sociale interno all'impresa tradizionale viene completamente abbattuto in un modello cooperativo a vantaggio non di alcuni ma di ciascuno. Tale vantaggio risulta ancora più evidente nella cooperativa IVV, stavolta in provincia di Arezzo ma il percorso è il medesimo. L’impresa non potendo più garantire il lavoro a molti era difronte ad un bivio, chiudere o cercare di ripartire. L’Industria Vetraria Valdarnese viene salvata dai soci-lavoratori che grazie alla Legge 23 luglio 1991, n. 223, art. 7, ha permesso ai dipendenti dell’ impresa in crisi, di mettersi in proprio e di richiedere all’Inps l’anticipazione dell’indennità di mobilità al fine di costituire la nuova cooperativa IVV:

 

“Simone Carresi è il presidente della cooperativa IVV, ovvero Industria Vetraria Valdarnese. «Siamo un’azienda storica nata nel 1952, con un fatturato di circa 14 milioni di euro di cui 5,5 dall’estero». Nel 2006 il primo bilancio in perdita dopo 20 anni. Il tracollo nel 2009. Da 160, i dipendenti quasi si dimezzano e incomincia la sequenza dei contratti di solidarietà (al 50/60% delle ore). Carresi, 44 anni, da direttore generale si incarica di guidare la ristrutturazione aziendale, varando un aumento di capitale che impegna ognuno dei 110 soci della cooperativa al versamento di 3mila euro. Oltre alla rinuncia dei benefici della contrattazione di secondo livello, quantificabile in una riduzione generalizzata di circa il 15% delle retribuzioni. Il ridimensionamento poi implica anche la vendita di asset e immobili per un valore di 3,6 milioni di euro. A maggio 2014 parte il nuovo corso. L’obiettivo per i prossimi 5 anni è quello di un fatturato di 4 milioni per annualità. «Un traguardo che contiamo di tagliare grazie anche al supporto del mondo cooperativo, insieme alla Coop e a Conad abbiamo infatti lanciato un programma loyalty promozionale basato sui bollini/spesa che per noi sta avendo un peso importante», spiega Carresi. Nel frattempo il 2014 ha chiuso con un utile di 200mila euro. «Un bel segnale». Il passo decisivo? «Senza la disponibilità dei soci-lavoratori oggi non saremmo qui»[26]”.

 

    Il WBO non è esclusivo del settore industriale, è il caso della Fenix Pharma, costola di una grande multinazionale farmaceutica:

 “Analoga traiettoria ma in un settore produttivo diverso (farmaceutico) è stata seguita a Roma da Fenix Pharma società cooperativa che aderisce al Legacoop, rinata grazie ai lavoratori che hanno rilevato le attività di un multinazionale, l’americana Warner Chilcott (ex-Procter & Gamble Pharmaceuticals) che nel 2011 aveva deciso chiudere e di metter in mobilità 160 lavoratori dello stabilimento italiano. La storia in questo caso è emblematica non solo per le testimonianze dei lavoratori che raccontano l’intero processo di acquisizione (nel quale hanno investito i propri risparmi oltre al TFR ed ai sussidi di disoccupazione circa 40 lavoratori) ma soprattutto per il fatto di rappresentare una esperienza di workers buyout in un settore che non rientra tra quelli ad alta presenza cooperativa. Anche in questo caso è risultato decisivo l’intervento di Coopfond e CFI che hanno permesso alla Fenix Pharma di rilanciarsi ed oggi con otto milioni di fatturato 46 soci e circa 90 dipendenti è sicuramente una impresa di successo, per altro con ampi margini di sviluppo[27]”.

 

Il WBO oltre ad essere un ottimo strumento per le imprese in crisi può diventare mezzo di riscatto sociale. Emblematica è la storia della cooperativa Olimpo nata proprio nel tentativo di combattere il fenomeno mafioso in una città come Palermo. Questa volta oltre che a fronteggiare la crisi, i soci del centro Olimpo hanno combattuto una battaglia a colpi di legalità cercando di ripulire il nome della loro regione:

 

 “Gaetano Salpietro. Un’altra città: Palermo. Un altro settore: la grande distribuzione. Un’altra età: 66 anni. La stessa convinzione: «Il Wbo può essere uno strumento formidabile di riscatto sociale». Soprattutto se lavori a Mondello su un terreno confiscato alla mafia. Quella del Centro Olimpo (2mila metri quadrati, sette negozi più un bar, nel cuore di una delle zone più ricercate del capoluogo siciliano) è in effetti una storia paradigmatica. Il centro apparteneva al gruppo Aligroup (marchio Despar) «ma dal 2012», interviene Salpietro, «siamo entrati un una complessa vicenda anche giudiziale che ha visto il Centro passare di mano a un gruppo locale di Palermo, che però non ha mai perfezionato l’acquisto. Di fatto siamo entrati in un limbo e incominciavano a girare strane voci sul personale: in molti hanno incominciato a temere per davvero di perdere il posto». Era il punto di non ritorno. Da qui la decisione di costituire una cooperativa e di rilevare il ramo d’azienda. «Prima eravamo in cinque poi in sei alla fine ci siamo ritrovati in 34 su 47», confida Salpietro. Una sponda importate è stata anche la magistratura che ha concesso il via libera malgrado l’immobile fosse sotto sequestro e «ci ha permesso di partecipare all’asta per acquisire l’attività produttiva»: 500mila euro sono arrivati dalle indennità di mobilità degli ex dipendenti. Così a fine 2014 dopo quasi due anni di stop, il Centro ha riaperto al pubblico. L’obiettivo era di fatturare intorno ai 9/10 milioni contro il 13/14 della gestione Aligroup. «I primi segnali non sono incoraggianti in questo senso, ma dopo una pausa così lunga dobbiamo riconquistare la clientela», confessa Salpietro. Che aggiunge: «Guardate che qui in Sicilia, la nascita della nostra cooperativa è un segnale straordinario: abbiamo sfidato rendite di posizioni molto forti, resistenze sindacali e lo abbiamo fatto perché siamo stati in grado di creare un consenso visibile intorno a noi, a partire dal mondo cooperativo, ora certo abbiamo bisogno di un po’ di fortuna». Nell’attesa è arrivata la benedizione di Bergoglio. «Faccio il tifo per le coop nate attraverso il progetto di workers buyout», così papa Francesco lo scorso 28 febbraio ha accolto 7mila cooperatori riuniti in audizione in Vaticano[28]”.

 

Un altro esempio interessate delle WBO è il fattore di riscatto personale che determina la riuscita dell’intento. È il caso di nove operai in cassa integrazione, dove grazie al progetto sociale Linfa, hanno cercato di riqualificare la loro impresa chiusa da qualche tempo. Passione, impegno, voglia di lavorare e soprattutto collaborazione con le istituzioni sono le chiavi di questa piccola legatoria che vede oggi la nascita di una cooperativa tutt’oggi operativa.

 “Un esempio di workers buyout che integra politiche del lavoro e di sviluppo è rappresentato dalla Legatoria D’ancona di Pescara, società cooperativa costituita dalle ceneri della Legatoria D’Ancona, che aveva chiuso i battenti nel 2013, mandando in cassa integrazione 22 dipendenti. In questo caso la Provincia di Pescara con il Progetto LINFA - nato proprio per orientare, formare e, soprattutto, ricollocare i lavoratori più colpiti dalla crisi - ha fornito ai nove lavoratori che avevano deciso di avviare l’acquisizione della storica legatoria anche un supporto orientativo e formativo. Interessante, in questo caso non solo l’integrazione con programmi di politica attiva o il ricorso dei lavoratori al TFR ed ai residui delle indennità di mobilità ma anche il ruolo del sistema bancario che di fatto finanziato il progetto[29]”.

 

     Queste sono solo alcune realtà dove il fattore chiave è inquadrabile non tanto in un assetto aziendale o in una riforma strutturale, quanto nell'impegno di alcuni soggetti che hanno rischiato tutto, in una situazione già drammatica, e ne sono “venuti fuori”. Questa nuova concezione di impresa forse non risolverà l’intera crisi mondiale ma sicuramente rappresenta un punto di svolta nello scenario economico. L’impregno delle WBO unita ad una riforma strutturale nel mondo cooperativo e l’impegno istituzionale sono forse la chiave di Volta per uscire da una situazione economica assai delicata. Lo sforzo personale infatti affiancato dalle istituzione ottiene risultati che singolarmente i due soggetti non possono raggiungere. Il singolo ottiene un lavoro mentre il pubblico risparmia costi dovuti alla disoccupazione e alla “zavorra sociale” che possono rappresentare soggetti senza lavoro. Proprio in un’ottica di welfare il buy out, e più in generale la cooperativa, rappresenta forse la migliore riforma sociale in quanto il lavoratore oltre a procurarsi il lavoro ne imprime un ingrediente sociale volto al vantaggio di sé stesso e della comunità intera. Il dipendente non è più infatti mezzo di produzione ma fine aziendale. Questo è lo spirito delle WBO che risorgono dove l’impresa ha fallito, dove un imprenditore è caduto, tanti soci riscoprono un’opportunità.

 



[1] Fonte: www.ansa.it

[2] Cerved Group: “Osservatorio su fallimenti, procedure e chiusure d’imprese”, Giugno 2015 n. 23.

[3] Fonte: Cerved Group

[4] La condizione di crisi aziendale non è necessaria ma permette il ricorso a fondi e agevolazioni fiscali.

[5] Bausilo G. (2014): “Contratti atipici”, Milano: CEDAM. p. 385 - 389

[6] La leva finanziaria consiste in una tecnica di acquisizione del controllo di una società utilizzando il ricorso al debito, nella prospettiva che i flussi di cassa futuri attesi dalla target siano sufficienti a remunerare e rimborsare tale debito. Le risorse finanziarie necessarie sono raccolte tramite società finanziarie specializzate in questo genere di operazioni.

[7] Ibidem

[8] Enrico Di Tomaso – Caiazzo Donnini Pappalardo & Associati CDP Studio Legale | 20 novembre 2014

[9] Caragnano R. - Caruso, G. (2010): “Osservatorio partecipazione dei lavoratori”

[10] Kim E. -  Ouimet  P. (2014): “Broad-Based Employee Stock Ownership: Motives and Outcomes”, Journal Of Finance, 69, 3, pp. 1273-1319.

[11] Arduini S. (04 agosto 2015): “Sono ormai diverse decine le imprese sull'orlo del fallimento rimesse in moto grazie ai dipendenti. Che diventano manager di se stessi investendo di tasca propria. Come ci riescono? La risposta in questa inchiesta”, http://www.vita.it

[12] Papa Francesco (2015): “Discorso ai rappresentati della confederazione cooperative italiane”, 28 febbraio.       

[13] Articolo 190, Legge 24.522.

[14] Sermasi J. (2012): “Imprese recuperate in Argentina: pratiche collettive di reazione alla disoccupazione”.

[15] Barbera F. (2014): “L'impresa "recuperata": dall'esperienza argentina alle politiche di supporto alle imprese colpite dalla crisi finanziaria in Italia”.

[16] Salvadori A. (2014): “Coopfond e le altre: quando la vita delle aziende ricomincia dai dipendenti” Corriere della sera, 29 Settembre, pag. 38

[17] Sciuto M. (2013).

[18] Art. 11 co. 2 e 3 Legge 9/2014

[19] Contengono la prima “provvedimenti per il credito alla cooperazione e misure urgenti a salvaguardia dei livelli di occupazione” e la seconda “nuove norme per la società cooperativa”. Queste introducono numerosi strumenti per la realizzazione dei WBO con lo stanziamento di fondi e risorse come il fondo FONCOOPER o il “Fondo speciale per gli interventi a salvaguardia dei livelli di occupazione”.

[20] Roncato V. (2012): “Le operazioni di Buy-out in Italia. Focus sul Workers buy-out come strumento per gestire la crisi”. Tesi di Laurea Corso di Laurea magistrale (ordinamento ex D.M. 270/2004) in Amministrazione, Finanza e controllo, Università Cà Foscari.

[21] Di Tomaso E. – Caiazzo Donnini Pappalardo & Associati CDP Studio Legale | 20 novembre 2014

[22] Ibidem

[23] De Agostini S. (9 febbraio 2016): “Workers buyout, quando i lavoratori recuperano la fabbrica. Con la crisi i casi sono aumentati del 50%”, IlFattoQuotidiano.it

[24] Ibidem

[25] Arduini S. (04 agosto 2015): “Sono ormai diverse decine le imprese sull'orlo del fallimento rimesse in moto grazie ai dipendenti. Che diventano manager di se stessi investendo di tasca propria. Come ci riescono? La risposta in questa inchiesta”, http://www.vita.it

[26] Ibidem

[27] Maurizio Sorcioni (18/01/2016): “Le esperienze di Workers Buyout: una risposta dei lavoratori alla crisi” http://www.benecomune.net/

[28] Arduini S. (04 agosto 2015): “Sono ormai diverse decine le imprese sull'orlo del fallimento rimesse in moto grazie ai dipendenti. Che diventano manager di se stessi investendo di tasca propria. Come ci riescono? La risposta in questa inchiesta”, http://www.vita.it

[29] Maurizio Sorcioni (18/01/2016): “Le esperienze di Workers Buyout: una risposta dei lavoratori alla crisi” http://www.benecomune.net/